Sviluppo della poetica arcadica nel primo Settecento (1958)

Sviluppo della poetica arcadica nel primo Settecento, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1958, poi in W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio cit.

SVILUPPO DELLA POETICA ARCADICA NEL PRIMO SETTECENTO

Dopo la fase prearcadica di fine Seicento di cui ho già illustrato nel primo capitolo di questo libro gli aspetti per quel che riguarda il gruppo toscano e soprattutto l’opera di poetica e di pratica attuazione del Menzini (Arte poetica e sonetti anacreontico-pastorali), il momento decisivo dello sviluppo della poetica arcadica nei primi anni del Settecento è costituito dall’urto fra le due proposte del Gravina e del Crescimbeni e dalla pratica vittoria di quella del secondo.

E certo la sconfitta del Gravina (la cui lezione pure a suo modo è ineliminabile come componente di aspirazione alla «greca felicità», come esigenza della organicità interna delle opere poetiche, risentite non inutilmente nella interpretazione piú moderna e schiettamente arcadica di un Metastasio e di un Rolli) può venir rappresentata come uno scacco dell’impegno piú serio e di una volontà di poesia che, pur nei suoi chiari limiti intellettualistici e didascalici, implicava il riferimento alto alla grande poesia, un piú intenso rapporto poesia-cultura e fermenti estetici che trovano poi ripresa nel pensiero del Conti e accoglienza ed attenzione piú congeniale nella tensione del neoclassicismo ad una poesia eroica e mitica[1] e nell’originale poetica neoclassico-romantica del Foscolo.

Ma occorre pur ben rilevare come la proposta graviniana di un neoclassicismo severo, di una ripresa della poesia all’altezza degli esempi di Omero, dei tragici greci, di Dante e dell’Ariosto (con la caduta poi nell’esemplarità del Trissino che denuncia limiti pedanteschi e archeologici del gusto graviniano, per non dire del tentativo di attuazione personale delle cinque tragedie[2]), fosse comunque sproporzionata alle effettive possibilità e alle piú vive esigenze del gusto e della sentimentalità arcadica. E quindi storicamente inattuabile o attuabile nelle forme equivoche e velleitarie del Guidi (non prive di una loro tensione iniziale, ma incapaci di realizzarsi se non frammentariamente e in una linea di gusto piú chiaramente arcadico-barocchetto) e in una retorica dell’eroismo e dell’impeto pindarico cui non corrispondeva un adeguato animo tragico-lirico vissuto in una coerente dimensione storica e di società.

In realtà l’Arcadia di primo Settecento vive la sua vita piú compatta, limitata quanto si vuole, insidiata da frivolezza e da elementi di conformismo, ma piú autentica e sincera, in una direzione media e centrale di socievolezza, di canto, di «prudente» ricostituzione di valori morali ed estetici fra razionalismo e buon senso, fra saggezza ed edonismo di cui, fuori ormai delle condizioni barocche, traduceva gli elementi piú generali di chiarezza, comunicabilità, animazione lieta, in una tendenza letteraria ben lontana dalle proposte di poesia mitica e didascalica, solenne e severa del Gravina.

Sí che, esaurita, o diversamente risolta e ridotta la tensione di tipo morale, religioso, eroico della fase di fine Seicento[3] (che pure stimola il pensiero estetico, al di là delle sue piú immediate possibilità pragmatiche, in offerte allo svolgimento dell’estetica e della poetica settecentesca successiva), e in coerenza con le premesse del gruppo toscano e soprattutto del Menzini (presto assimilato al gruppo romano crescimbeniano), la linea che viene prevalendo in Arcadia è quella appoggiata all’attività di poetica e di esercizio espressivo del Leonio e dei sonettisti romani (Somai, Stampiglia, Paolucci, Leers, i due Passerini) e alla proposta del Crescimbeni che, nei suoi modi piú accademici e retorici, sostanzialmente ne accoglieva e codificava le esigenze centrali. E che, pur con una serie di schemi, di convenzioni, di esempi che paiono soprattutto puntelli e sostegni provvisori, destinati a cadere di fronte al crescere di una effettiva vitalità di costume, di sentimentalità, di letteratura (quando maturano le esperienze piú vive di una Maratti o di uno Zappi), sosteneva un piú sicuro incanalamento delle centrali e piú genuine tendenze miniaturistiche, idilliche e patetiche della società letteraria arcadica e delle sue esigenze di espressione poetica, «leggiadra» e «gentile», di una sentimentalità e di un senso della vita volti soprattutto ad una fruizione socievole di beni mondani, ad una interpretazione saggia-edonistica, idillica e patetica del ritmo vitale entro un gusto di rapporti umani, di colloquio, di familiarità in cui prendono particolare valore cortesia, affabilità, grazia, garbo, chiarezza e ragionevolezza.

A queste esigenze e alle contemporanee sollecitazioni di Vincenzo Leonio (che è il collaboratore piú vero dell’opera pratica del Crescimbeni, come è il sostenitore piú esplicito dello schema pastorale[4] e dell’esemplarità del Di Costanzo[5]) il custode generale di Arcadia veniva incontro con le parti piú rilevanti della sua trattatistica e della sua interpretazione della letteratura del passato in funzione della nuova poetica del «buon gusto».

Sicché, mentre nella parte teorica (molto mediocre e ben lontana dall’impegno intellettuale del Gravina o del Muratori), nella Bellezza della volgar poesia, egli, nel compromesso edonistico-moralistico di diletto ed utile, di bellezze «esterne» e di bellezze «interne» della poesia, spostava chiaramente l’accento sui primi termini, sul piacevole insieme e sulla cura stilistica, con una implicita svalutazione dei tentativi piú contenutisticamente impegnativi della zona prearcadica fra Gravina, Maggi e Guidi, cosí nella parte storica (nella Istoria della volgar poesia di cui qui non ci interessa il valore erudito e lo schema storiografico), la sua interpretazione della tradizione, che punta sulla dignità, autonomia e continuità della letteratura e della lingua italiana (malgrado le deviazioni del Quattrocento umanistico con la sua sfiducia nel volgare e del Seicento barocco), recupera le indicazioni menziniane (Petrarca e Chiabrera) e si precisa nella doppia linea esemplare, per la lirica, del petrarchismo e di un classicismo moderato (o stile «greco italianizzato») che coincide con l’esempio chiabreresco, specie nella direzione anacreontica.

Alla luce di una poetica della correttezza e «leggiadria», della regolarità ragionevole e dell’animazione piacevole, il Crescimbeni codificava cosí – fra interpretazione pragmatica della tradizione e discussione sul gusto attuale e sulla riforma del «buon gusto» – le esigenze piú coerenti all’esercizio già in parte attuato e agli ideali letterari e di costume del gruppo centrale dell’Arcadia romana e le appoggiava alla proposta di un petrarchismo «illeggiadrito» e di un classicismo miniaturistico (e quante volte egli loda degli autori moderni per aver «rifatto in piccolo» qualche classico[6]!), nonché alla strenua difesa della rima[7], mentre energicamente rifiutava il procedimento «mitico» proposto dal Gravina e tenuto dal Guidi[8] e implicitamente svalutava l’esemplarità di una poesia che, come quella del Maggi, puntasse soprattutto sulla brusca novità dei contenuti morali e religiosi, meno curando le particolari esigenze del linguaggio poetico[9].

Certo il Crescimbeni, nel suo piano di ricostituzione di tutti i «generi» e di tutte le forme della poesia, si preoccupava[10] anche di ammettere ecletticamente esempi diversi di possibilità di poesia grandiosa (comunque piú sulla via del Filicaia che del Guidi), ma poi, malgrado tale sua volontà di un’Arcadia bonne à tout dire, la sua scelta piú genuina puntava evidentemente sulla via del sonettismo[11] petrarchistico-anacreontico e della canzonetta di origine chiabreresca, e gli esempi «moderni» a lui piú cari son proprio quelli del Menzini o dello Zappi che potevano indicare la linea di continuità fra le premesse prearcadiche di tipo non grandioso e lo sviluppo in atto nella direzione della grazia leggiadra, della melodia accordata con la nitidezza miniaturistica, del patetismo piacevole e melodrammatico.

E cosí, anche nell’attività letteraria dell’Arcadia sotto la custodia di Alfesibeo Cario, se pur continuano a coesistere esperienze diverse, sviluppi della tematica eroica ed encomiastica di un Filicaia o di un Guidi, esercitazioni petrarchistiche «ortodosse» (come quelle del gruppo bolognese, in cui va calcolata la versione originale del Manfredi[12]), forme di didascalismo scientifico magari in «ecloga» pastorale, accanto ai sonetti e alle canzonette di tipo anacreontico-pastorale e di gusto patetico-idillico e melodrammatico, sempre piú questi ultimi componimenti prevalgono in relazione alle esigenze arcadiche di una poesia leggiadra e briosa, chiara ed agile, animata e fluida, espressione dell’animo piú sincero di un’epoca negata ad un vero grandioso, a veri sentimenti eroici, tragici, appassionati, che semmai vivevano come aspirazioni velleitarie o sfumature secondarie ridotte entro un mondo di piccole eleganti proporzioni o come elemento scenografico stilizzato, o come stimolo di tensione melodrammatica.

Sicché, se possiamo leggere con qualche interesse l’odicina piú frivola e il sonettino piú aggraziato per cercarvi almeno l’eco di una sentimentalità e di un gusto vivi e diffusi in un periodo della storia e della letteratura settecentesca, quanta maggiore fatica e quanto maggiore fastidio si provano nel leggere i sonetti e le canzoni sulle guerre contro i turchi e sulle vittorie di Eugenio di Savoia[13], le «corone» e «ghirlande» di poesie in onore di principi, re, papi, onorati nelle sedute arcadiche romane, le esaltazioni di una civiltà arcadico-pontificia, o le esercitazioni sul tema guidiano delle grandiose rovine romane[14] o quelle su temi religiosi magari travestiti pastoralmente[15].

Sempre piú la poetica arcadica restringeva e consolidava i suoi interessi e corrispondeva al limite di una società che proprio nella sua animazione piacevole, nel suo amore di dialogo e di rappresentazione, di incontro di voci nelle loro patetiche vibrazioni, nel suo coerente bisogno di proporzioni brevi, eleganti, comode, «abitabili», briose e controllabili razionalmente, realizza il proprio animo piú vero, il suo limitato acquisto di una vitalità piú intensa e sicura (pur in mezzo a tanto conformismo e a tanta prudenza che ben distingue quest’epoca da quella tanto piú libera e decisa dell’illuminismo), nel gusto del vivere socievole, nel possesso di una piccola e piacevole realtà, nello svolgimento e nell’espressione di una patetica vita di sentimenti.

Evoluzione del gusto che corrisponde al consolidarsi delle piú generali condizioni della civiltà settecentesca in formazione, nella sua fase arcadico-razionalistica: fasto cede a grazia, grandiosità a uso piacevole e socievole, la scenografia delle città tende a ridursi in forme piú «praticabili» e meno monumentali con tutta una tendenza al passaggio al vero e proprio «rococò» che in questo periodo vien trovando la sua prima base di appoggio non solo tecnica, ma generale di gusto, di costume, di mentalità.

E cosí sempre piú sonetti e canzonette prevalgono sulle canzoni solenni e complesse, e nel loro movimento agile e nitido si afferma piú coerentemente l’animo arcadico di patetico tormento e di lieto fine, la lieve tensione di un idillismo gentile e melodico, di un edonismo non volgare e ragionevolmente moderato, che esaltano le immagini affascinanti delle stagioni (regolarità e varietà della natura, fruizione di un’ordinata, spontanea offerta di diversi piaceri), gli elementi minuti e piacevoli di una realtà idillicamente colorata, le vicende dolci-amare dell’amore e magari svolgono sentimenti autobiograficamente dolorosi in una direzione patetica e melodica che li attenua entro una sentimentalità già nuclearmente aliena dall’estremo della passione e del dramma.

Tanto che, mentre sonetti e canzonette prendono sempre piú i caratteri di un’agile miniatura, di un piccolo melodramma ridotto in proporzioni tanto piú eleganti ed intime quanto piú brevi e pur chiare e nitide, magari sino al limite di certi «sonettini» di ottonari o di canzonette brevissime[16] (in cui la tecnica arcadica afferma anche la sua esigenza di un piú sicuro dominio stilistico in piccoli organismi adatti allo svolgimento di temi galanti poco complessi), la tendenza al «melodrammatico», alla scenetta patetica, tenera e melodica si afferma persino nei casi in cui l’analisi dei sentimenti, stimolata dalla scuola del Petrarca, poteva indurre a piú profondi scavi psicologici o dove gli elementi volontariamente piú drammatici e morali, ripresi in parte dalla lezione guidiana, richiedevano adeguati svolgimenti di tipo drammatico e solenne.

Si pensi, per l’utilizzazione piú schietta della tematica e degli esempi petrarcheschi in questa zona arcadica, al di là della stessa mediazione di esempi del Di Costanzo (spesso piú indice di una tendenza che effettiva, costante applicazione di un modello), alla prevalente scelta del tema della nave in tempesta, usufruito per un movimento patetico, cui non manca poi la speranza o la realtà del «porto» come simbolo del lieto fine, o di quelli della «cameretta», come rifugio serenatore, e dell’«usignolo» che sfoga e disacerba il dolore col canto. E si consideri insieme la riduzione in scena e in figurine patetiche e melodrammatiche di situazioni petrarchesche, come nella imitazione di Chiare, fresche e dolci acque da parte del Lavaiana[17], in cui il poeta e la donna amata divengono figurine di melodramma su di una scena pittoresca e aggraziata, e il linguaggio, esemplato su quello petrarchesco, risolto in forme «leggiadre», tendenti al cantabile.

Tendenza centrale della sentimentalità e del gusto arcadico nel suo sviluppo di primo Settecento, che può verificarsi persino in casi di impostazione etico-letteraria lontani dal filone piú schietto e sicuro del sonettismo e canzonettismo anacreonti-copastorale, come è il caso sintomatico della stessa canzone autobiografica di Fidalma Partenide (Petronilla Paolini Massimi) che il Croce[18] studiò entro una ricostruzione della vita dolorosa e della letteratura efficace di questa personalità seria e pensosa. E in realtà Fidalma Partenide non solo tentava di trasporre in lirica costruzione complessa la sua esperienza femminile sofferta e sfortunata, il ritmo drammatico delle sue vicende biografiche (l’assassinio del padre, lo sposalizio forzato al vecchio castellano di Castel S. Angelo, geloso e dispotico, la segregazione nella fortezza, la morte del figlio), ma proprio in questa sua volontà di storia drammatica e di contrasto fra il destino e la forza del suo animo, confortato dalla religione e da una stoica saggezza, essa riprendeva (come il Croce meno calcolò) una particolare poetica eroico-morale che il Guidi aveva divulgato in un preciso milieu di gentildonne romane (la Grillo, la Capizucchi, la Massimi) che opponevano ad una versione galante e piacevole dell’Arcadia l’aspirazione ad una poesia alta, risentita, alimentata da una pratica di vita etico-religiosa.

Aspirazione e opposizione chiaramente presenti nella nota canzone autobiografica[19] in cui la Massimi compendiava la sua esperienza vitale e poetica nel tema alto del contrasto guidiano tra fortuna e virtú nel dolente, orgoglioso ritmo di una conquista di serenità e di saggezza affermate sopra la rappresentazione risentita e articolata delle sue sofferenze di figlia, di sposa, di madre infelice. E certo a quel programma essa adibiva le forme di un linguaggio e di un ritmo drammatico, con una volontà guidiana di forti stacchi iniziali di enfasi immaginosa, di clausole battute e rilevate.

Ma a chi ben guardi spregiudicatamente non può non apparire spesso una diversa realtà di tono e di atteggiamento piú istintivi e «storici», l’affiorare qua e là di una venatura melodica che soffonde e intenerisce l’articolazione severa della canzone (a parte la significativa presentazione del canto come sfogo e risoluzione addirittura del dolore, come avviene anche nell’altra canzone Quando dall’urne oscure). Cosí come, nella stessa costruzione di scene dolorose della sua vita infelice, Fidalma Partenide è quasi spinta da una istintiva tendenza del gusto e del costume sentimentale a tradurre dramma in «melodramma», a presentare la propria figura esemplare in forme che non possono non richiamare ben altre figurine arcadiche in cui piú chiaramente il rapporto dramma-melodramma è svolto nella sua piú naturale funzione di accrescimento di una sensibilità vibrante e patetica, di una collaborazione di forme del linguaggio drammatico ad una vibrazione non fittizia, ma che intimamente prepara lo slancio rasserenato del «lieto fine».

Come avviene particolarmente nella scena della padrona-prigioniera in Castel S. Angelo che «passeggia sulle funeste scene» e «bacia le catene» e sfoga col canto il pianto e le angosce nel «chiuso orrore» della «rigida prigione»:

Sotto titolo illustre in chiuso orrore

varcai le piú bell’ore

e passeggiai sulle funeste scene;

pur baciai le catene

e in rigida prigion sfogai col canto,

qual dolente usignol, l’angosce e il pianto.

Certo la volontà espressiva generale insiste sul contrasto e quasi sul sorriso sdegnoso di tipo guidiano, né qui si vuol per nulla negare che la Massimi vivesse con sincerità un atteggiamento etico-religioso, ma ciò che si vuol dire è che persino in documenti lontani dall’intonazione piú coerente di questa fase arcadica, e anche là dove si tende addirittura al drammatico e all’autobiografico doloroso, un’irresistibile inclinazione del gusto spinge a tradurre gli elementi di dramma e di passione nelle loro forme piú schiette, e «storiche», nella loro possibilità patetica e melodica, e la lirica tende sempre a trasformarsi in rappresentazione scenica, in condizione sinteticamente «melodrammatica».

Ché, pur tenendo alla distinzione di una coscienza di «generi» nella letteratura arcadica, il tono melodrammatico sembra guidare centralmente lo svolgimento della lirica arcadica. Sí che la considerazione di questa tendenza, già prevalente nei primi anni del secolo, pare autorizzare ad una specie di giustificazione interna, prima che tecnico-teatrale, della vocazione melodrammatica del Metastasio. Nella stessa tragedia, del resto, proprio i prodotti piú tipici di questa fase arcadica sono quelli in cui la tragedia maschera un effettivo melodramma. Come avviene nel caso di certe tragedie del Martello (ad es., l’Ifigenia in Tauris[20]) o, in certo senso, perfino della stessa Merope del Maffei in cui tanto spesso il lettore avverte il piú forte affiorare, sotto i motivi tragici, di una chiara aspirazione idillica (si veda il monologo di Egisto, Atto IV, scena III[21]): per non dire del suo finale atteggiamento in forme gioconde e familiari di «lieto fine» a cui concorrono – piú che il riconoscimento del provvidenziale intervento divino che ha fatto trionfare la virtú sulla perfidia – la gioia idillica di tutti i presenti[22], la concordia di affetti familiari fra Egisto, Merope e il vecchio Polidoro, il quale esalta per tutti la soddisfazione di ogni suo desiderio, l’assoluto appagamento di ogni sua aspirazione.

Mentre il «tragico» Alfieri accettando, nella sua gara col Maffei, lo schema ottimistico del lieto fine, cercherà di far vibrare il finale almeno di una tensione cosí forte della gioia inattesa da far trepidare il figlio per la vita di Merope, che sta per venir meno e morire per un esito che par quasi piú sopraffarla che rasserenarla.

Ben piú chiara di quella della Massimi è certo la situazione dell’altra rimatrice dell’Arcadia romana, Faustina Maratti-Zappi, la celebre Aglauro Cidonia che i contemporanei esaltarono come un singolare incontro di bellezza, di «virtú», di poetica schiettezza, come esemplare voce di «donna» che sapeva partecipare autonoma e sicura alla ricostituzione di una società e di una letteratura che davano grande importanza alla presenza delle donne come essenziale polo di una intera tensione vitale, di un dialogo intero (dopo l’esclusione dell’epoca barocca) entro nuovi rapporti familiari e socievoli. Sicché ben si comprende come il fascino di Aglauro si arricchisse anche (fra esigenze «virtuose» e aspirazioni «eroiche») della risonanza della sua storia biografica fra la nota vicenda del ratto tentato, nel 1703, dallo Sforza Cesarini e fallito mercé la virtuosa resistenza della nuova e piú avventurata Lucrezia (con l’inerente antipatia del nuovo costume per usanze di prepotenza feudale), la fedeltà felice al marito, la loro vita intensamente familiare e socievole di coppia coniugale «onesta e moderna», e poi magari le sventure della morte del figlio Rinaldo e del marito e la persecuzione calunniosa da parte dei parenti del mancato seduttore.

Mentre meno si giustifica il rilievo dato alla storia della «nuova Lucrezia», e al suo valore per una interpretazione della poesia eroica e morale della Maratti, da studiosi di ultimo Ottocento come il Morandi[23], che, affascinati dalla vicenda del tentato rapimento e dalla energica moralità della virtuosa Faustina, esaltò la «donna vera», la sua poesia nobile ed eroica contro la mollezza effeminata dello Zappi e degli altri rimatori arcadici, tentando di distinguere nella produzione della Maratti le poesie «sentite», che creavano il mito di Lucrezia e lo allargavano nei ritratti eroici delle donne romane, da quelle convenzionali e «arcadiche» della pastorella Aglauro.

Errore sintomatico per tutta una valutazione dell’Arcadia (salvare contro l’Arcadia gli atteggiamenti e i temi contenutisticamente e retoricamente piú drammatici, eroici e «seri») di cui in parte, e in modi certo tanto piú cauti, si può pur avvertire un’eco anche nel recente e, per altri aspetti, interessante volumetto di Bruno Maier[24], che, pure riconoscendo e lumeggiando la felicità e la freschezza dei sonetti patetici e melodici, ha ancor troppo concesso all’immagine di tipo morandiano, alla poetessa ispirata ad un «senso eroico e robusto della vita», valutando positivamente quei sonetti storico-eroici (la galleria di ritratti delle donne romane) che viceversa rappresentano il momento piú velleitario dell’esercizio espressivo della Maratti: momento legato anche ad aspetti della sua educazione letteraria nell’ambiente guidiano che ho già ricordato a proposito della Paolini Massimi.

Indubbiamente quella educazione assecondava un fervore morale tutt’altro che falso, come ben sincera era la vita di affetti della Maratti, ma la direzione «alta» in cui quella vita sentimentale e morale veniva avviata, sull’esempio della scuola guidiana, era sproporzionata alle vere qualità e possibilità della rimatrice, la quale, ben piú congenialmente anche alle esigenze piú schiette del suo tempo e della sua società, poteva invece tradurre i suoi sentimenti nella direzione della gentilezza patetica, in forme di agile canto e di fresca rappresentazione di stati d’animo, in corrispondenze miniaturistiche e idilliche con paesaggi piacevoli e tenui in cui la vibrazione del suo sentimento delicato, le alternanze della sua esperienza vitale, fra speranza e timore, tra sofferenza e letizia consolatrice, si esprimono piú schiettamente che non nell’esercizio «illustre» in cui essa finiva per scaricare solo gli aspetti piú velleitari e retorici della sua tensione espressiva.

Non la via del rilievo energico e drammatico della passione e della «virtú» eroica le era aperta, ma quella di un’animazione vibrante, patetico-melodica, che essa realizza nei suoi sonetti piú schiettamente «arcadici», in accordo con la tendenza piú vera del gusto e della sentimentalità arcadica e nella stessa piú adeguata utilizzazione di una scuola letteraria di petrarchismo «illeggiadrito».

E se la Maratti volle porre anche la sua piú vera ed intima storia sentimentale e poetica (l’amore per il marito, la gelosia per altre donne, il dolore per le lontananze, le malattie, la morte precoce del compagno) sotto il segno alto ed esemplare di un amore coniugale e di una storia poetica illustri e spirituali (quello della Colonna e del suo canzoniere del «bel sole»), le note piú «platoniche» dei suoi sonetti si sciolgono piú morbidamente in una affettuosità gentile e leggiadra, in un patetismo melodrammatico che, mentre nel suo stesso movimento di diario e di confidenza ad ideali corrispondenti si inserisce nel gusto di dialogo e di comunicazione di una piccola società concorde in ideali di vita e di letteratura (con tutta una vivacità di toni piú familiari e borghesi), si appoggia piú concretamente a testi di lirici cinquecenteschi meno solenni e severi, fra echi di madrigale di tipo tassesco, calde tinte di paesaggio alla Tansillo, e soprattutto suggestioni del canto patetico e già, a suo modo, melodrammatico della Stampa[25].

E queste vicinanze piú congeniali sottolineano la sua inclinazione piú originale che effettivamente traduce la tensione alta dell’elogio del «bel sole» della Colonna in una vibrazione patetica e gentile, in cui il «puro ardore» diviene «soave ardore», le proclamazioni di virtú e fedeltà perdono il loro riferimento a valori etico-religiosi e si svolgono in una piú schietta atmosfera familiare, con un nuovo calore di sensibilità e un gusto di chiarezza razionale che gode a distinguere, a precisare il sottile rabesco di sentimenti spontanei ed educati, a comporli in un ritmo melodico e scenico misurato e vario, gentilmente idillico ed edonistico, come è il piú vero ritmo vitale di una società lucida e sensibile, lontana dall’esuberanza passionale e dal brusco sfogo drammatico, «saggia» e vivace, fiduciosa e razionalmente controllata. E cosí il «tormento», le «pene» di amore, senza divenire un giuoco astratto, vibrano nella loro vera dimensione di una esperienza insieme sofferta e goduta, come incentivo di una misurata letizia vitale che già nel canto, nell’espressione melodica, miniaturistica e patetica svolge le sue qualità consolatrici e piacevoli.

Amore è, con i suoi stessi tormenti, foriero di piú sicuro piacere, e conferma il suo compenso tanto piú felice perché ottenuto dopo un percorso di «rei martiri» che ne esaltano il valore pacificatore e sollecitano una animazione trepida e tenera della sensibilità, una sorta di tormentoso piacere. Come può vedersi nel sonetto seguente:

Bacio l’arco e lo strale, e bacio il nodo,

in cui sí dolcemente Amor mi strinse,

e bacio le catene, in cui mi avvinse,

auree catene onde vie piú mi annodo.

E il suo bel foco, e la sua face io lodo,

che a un cosí puro ardor l’alma costrinse:

soave ardor, ch’ogni mia pena estinse,

tal che vivendo io ardo e ardendo io godo.

Tempo già fu, che in lagrimosi accenti

d’Amor mi dolsi, e non sapea che sono

nunzi del suo piacer pochi tormenti.

Ora al Nume immortal chieggo perdono:

e voi tutti obliate i miei lamenti

«voi che ne udiste in rime sparse il suono».[26]

Dove il finale risolve piú apertametite la sostanziale intonazione di «dolcezza» di tutto il sonetto, che esalta la dolce-amara vicenda amorosa e raccoglie di quella nitida articolazione (ormai cosí sicura di fronte alle forme piú schematiche di molti sonettisti «programmatici» del gruppo crescimbeniano) il succo piú dolce in un rilievo finale che ha ormai superato dall’interno (e con una sicura corrispondenza sentimentale-stilistica) i vecchi pericoli barocchi della pointe e del finale «lonzo»[27] di una prearcadia piú timida e lineare. Cosí come avviene in quest’altro sonetto

(Dolce sollievo delle umane cure,

Amor, nel tuo bel regno io posi il piede,

e qual per calle incerto uom che non vede,

temei l’incontro delle mie sventure.

Ma tu l’oggetto di mie voglie pure

hai collocato in cosí nobil sede,

e tal prometti al cor bella mercede,

ch’io v’imprimo contenta orme sicure.

Soave cortesia, vezzosi accenti,

virtú, senno, valor d’alma gentile

spogliato hanno il mio cor d’ogni timore.

Or tu gli affetti miei puri innocenti

pasci cortese, e non cangiar tuo stile,

dolce sollievo dei miei mali, Amore.)

in cui il finale con il suo richiamo, quasi a stornello, del primo verso, risolve in termini di una goduta esperienza personale la verità piú generale inizialmente enunciata, la conferma lieta della validità di una verità cosí essenziale nell’animo arcadico: l’amore come sollievo, e come conforto a una esperienza socievole e privata di fruizione non volgare e non sfrenata di essenziali beni mondani in una civile misura, in un consenso generale che giustifica l’incontro di colloquio interiore e di piú esplicita impostazione di recitazione, rivolta ad un pubblico ben conosciuto.

Ed anche i sonetti di trepidazione per la malattia o le lontananze della persona amata si dispongono in questa linea di idillio melodico e le vicende dolorose si fanno vivo pretesto di piú veri svolgimenti di animazione patetica in cui gli esiti gentilmente malinconici e sospirosi vibrano con una grazia e una implicita consolazione di canto che li assimila ai finali che esaltano il dolce sollievo e la letizia delle dolci-amare pene di amore, e li accorda con i nitidi e delicati paesaggi che costruiscono una scena miniaturistica e delicatamente familiare, piú che una decorazione esteriore e fissa, come avviene invece in molti rimatori pastorali piú programmatici e convenzionali. Si rilegga un sonetto per una malattia dello Zappi

(Ahi ben mel disse in sua favella il core,

e l’aer grave, ch’io sentia d’intorno;

senz’acque il rivo, ove sovente io torno,

e la depressa erbetta e il mesto fiore.

Mel disse l’augellin che le canore

voci men lieto disciogliea sull’orno;

mel disse il sole il di cui raggio adorno

parea cangiato in pallido colore.

Né lieto il pesce al fiumicello in fondo,

né zeffiro scherzava in sulla riva;

ma il tutto era in silenzio alto e profondo.

Ciascun dir mi volea, che l’alma e viva

luce del mio bel Sol, sí chiara al mondo,

dagli occhi miei lontana egra languiva.)

e si avrà un esempio molto efficace di questa delicata corrispondenza di paesaggi, da lieti divenuti soavemente malinconici, con il paesaggio intimo dei presentimenti dolorosi, legati dall’abilissimo richiamo melodico dell’inizio e del finale, fra la voce del cuore e la suggestione della voce della natura particolareggiata in forme gentili e miniaturistiche, che, mentre parlano di tristezza, pure riportano nell’atmosfera animata e patetica del sonetto gli aspetti piacevoli della loro realtà consolatrice.

O si legga il sonetto per la lontananza del marito

(Ombrose valli e solitari orrori,

vaghe pianure e rilevati monti,

voi da ninfe abitati, e fiumi e fonti,

che pur sentite gli amorosi ardori;

verdi arboscelli e variati fiori,

che al ciel volgete l’odorate fronti,

vi sieno i zeffiretti e lieti e pronti,

cortese l’alba, e april vi imperli e infiori.

Felici voi, che dal bel pié sovente

calcati siete o dalla bella mano

tocchi, o dal guardo del mio Sol lucente.

Voi che già spirto un tempo aveste umano,

voi dite a lui qual pena il mio cor sente,

il cor, che vive, ahimé, da lui lontano.),

in cui la presenza piú numerosa e varia (ma con un disordine leggiadro e vago, retto da una sottile e salda linea di svolgimento) di gentili elementi paesistici, portati in primo piano e animati dalla simpatia che li evoca e li sente «umani» (e l’animus di simpatia, di cortesia, di consonanza è essenziale alla migliore letteratura arcadica), è chiamata a partecipare al sottile tormento della poetessa, e a farsi portavoce della pena del suo cuore. E questa nel sapiente e fresco sospiroso finale (reso piú lungo ed echeggiante dalle pause che spostano all’estremo termine la parola tematica della lontananza) si esprime nella melodia tenera di un canto che la realizza nelle sue condizioni piú vere di vibrazione patetica gentilmente melodrammatica.

In tal direzione il risultato piú indicativo del piccolo canzoniere della Maratti è certo il noto sonetto della gelosia, in cui la poetessa raccoglie in un componimento ancor meglio articolato ed organico i dati della sua fine analisi psicologica e della sua acuta sensibilità femminile. Il presentimento e l’apprensione della verità turbatrice, il contrasto fra il desiderio di conoscerla interamente e il timore di scoprirla cosí contraria alla propria tranquillità, si delineano nitidamente in una catena di domande indagatrici e in una conclusione che vuol richiudere, nel momento della rivelazione decisiva, la temuta apertura di una situazione troppo dolorosa. In una prospettiva che ben collega l’esperienza della Maratti a quella dello Zappi sulla via che conduce al gusto piú alto di distinzione e vibrazione dei sentimenti patetici di cui sarà poeta acutissimo il Metastasio:

Donna che tanto al mio bel Sol piacesti;

che ancor dei pregi tuoi parla sovente,

lodando ora il bel crine, ora il ridente

tuo labbro ed ora i saggi detti onesti;

dimmi, quando le voci a lui volgesti,

tacque egli mai, qual uom che nulla sente?

O le turbate luci alteramente

(come a me volge) a te volger vedesti?

De’ tuoi bei lumi alle due chiare faci

io so ch’egli arse un tempo e so, che allora....

Ma tu declini al suol gli occhi vivaci?

Veggo il rossor che le tue guance infiora,

parla, rispondi: ah non risponder, taci;

taci se mi vuoi dir ch’ei t’ama ancora.

Il piú sicuro rappresentante del sonettismo anacreontico, miniaturistico e melodrammatico, è appunto Gianbattista Felice Zappi, «il leggiadro Tirsi», («ne’ cui versi brillano le grazie, come i raggi solari in opposto cristallo»), a cui il Crescimbeni[28] riconosceva il merito di aver introdotto in Arcadia «il carattere anacreontico», mentre appare piú giusto ricollegare la sua esperienza agli esempi, in tal senso, del Redi e del Menzini, pur riconoscendo allo Zappi un piú preciso gusto di sfumatura melodica e di miniatura piú chiaramente rococó e l’aderenza di tali forme a una personale traduzione di vita sentimentale e socievole piú «moderna».

Nella lode della «leggiadria» zappiana (e il «leggiadro» è canone centrale della piú autentica poetica arcadica) concordarono unanimi i contemporanei (dal Martello che definí Tirsi «la grazia e la delizia della lirica poesia», al Mancurti, al Crescimbeni, al Muratori) e, malgrado la stroncatura barettiana (ben comprensibile e valida nella tensione preromantica ad una poesia drammatica e impetuosa, nell’essenziale ricostituzione di un senso piú profondo dell’esperienza poetica, ma caratteristica anche di una certa insensibilità di Aristarco di fronte a minori e sottili qualità artistiche), in quella lode convennero ancora il Foscolo, che nei Vestigi della storia del sonetto italiano, parlando del sonetto In quell’età, limitava, ma confermava la sua tenue vena di grazia («scrittore gentile, ma che spesso, cercando vezzi va nel lezioso: qui no: l’idea e l’esposizione sono affettuosamente e correttamente graziosi»[29]), e il giovane Leopardi, che credeva di sentire solo in lui la grazia semplice e suggestiva di Anacreonte: «Questa sensazione istantanea mi è parsa di sentirla leggendo, oltre Anacreonte, il solo Zappi»[30]. E se poi lo Zappi fu coinvolto nella generale squalifica dell’Arcadia, trovò piú recentemente nel Croce un attento rivalutatore della sua minore, ma sicura capacità di grazia, di verità psicologica, di incisione di animate scenette amorose[31].

Non si cercherà infatti di risollevare l’immagine dello Zappi dalla condanna barettiana e ottocentesca, divenuta poi di facile uso scolastico, puntando su certa sua produzione falsamente grandiosa (Per il Mosè di Michelangelo, Giuditta, Lucrezia), che pure piacque ai contemporanei in corrispondenza con la loro velleità, con il loro alibi di disponibilità anche ad effetti piú «seri» (che è spesso la loro piú vera frivolezza), e continuò ad avere successo nel corso del secolo sulla direzione di una Arcadia spettacolare e falsamente drammatica che vien ripresa nel sonettismo «eroico» del Frugoni e si complica poi con il manierismo pseudomichelangiolesco del Minzoni.

Quella produzione cosí legata anche ai doveri del poeta completo ed ufficiale (e di declamatore su ogni tema[32]) è effettivamente ai margini esterni della vocazione dello Zappi e la anzi, per contrasto (pur collegata a questa nell’esercizio generale della costruzione tecnica del sonetto nella sua forma piú esteriore), risaltar meglio la congenialità della sua opera di sonettista anacreontico con lo stesso ritrattino che del fortunatissimo letterato tracciava uno dei biografi contemporanei, il Mancurti: «Or quale era il suo stile nel comporre tutto florido, tutto vezzoso, e tutto pieno di brio e di spirito, tale altresí mantenne sempre il suo costume, il suo tratto e il suo discorso. Era di piacevole natura, di un animo candido e ingenuo, di somma fede e integrità con tutti, gioviale, allegro, ameno, affabile e cortese massimamente con gli amici co’ quali volentieri conversava, tenendo egli sempre allegra la conversazione con la ilarità del suo volto e con la grazia e prontezza de’ suoi detti e motti piacevoli ed arguti, ma sempre con moderazione e riguardo»[33]. Costume (parola essenziale nell’accordo fra poetica e spiritualità arcadica) affabile e schietto, grazie di spirito e di atteggiamenti che collaboravano, nella coerente grazia del suo recitare (in cui, secondo un sonetto della moglie, «le rare / idee sí ben co’ dolci atti dimostra»), alla vivace presenza dello Zappi nella sua società e ben sostengono la direzione piú genuina della sua tenue vena espressiva.

Proprio sui temi dell’«inzuccheratissimo» barettiano, sui temi amorosi anacreontici e pastorali (ma il pastorale è soprattutto un elemento decorativo adiuvante di leggiadra grazia e di patetismo), lo Zappi trova la sua migliore direzione, esercita la sua migliore misura, fatta di attenzione e «prudenza» stilistica, ma insieme derivante da una intima misura espressiva che, sul limite fra grazia e lezio (il pericolo, l’abuso son legati alla radice stessa delle sue migliori possibilità), organicamente inquadra in proporzioni minuscole, ma coerenti, il movimento patetico e melodrammatico che suscita in lui l’attenzione alla vita dei sentimenti galanti e amorosi, alla tenera, sospirosa vicenda dell’amore fra timori e speranze, tra sogni idillici edonistici e turbatrice difficoltà del lieto fine.

Di fronte a molti altri sonettisti e canzonettisti del suo tempo, una maggiore acutezza psicologica e una maggiore nitidezza di sguardo e di rappresentazione si traducono nella capacità di far rifluire nello specchio placido e aggraziato dell’idillio anacreontico e pastorale una vita di piccole vicende sentimentali, di scenette vive nel dialogo e nel gesto, vivacemente «moderne» entro la stilizzazione ornamentale di amorini, ninfe e pastori.

Perché, rispetto ai tentativi piú programmatici e dilettanteschi dei Leonio, Paolucci, Somai, Leers (i sonettisti romani che provano accordi petrarchistico-pastorali piú incerti fra analisi spirituale amorosa, riprese platoniche, edonismo di canto e galanteria «saggia»: e in questi gruppi piú direttamente legati alla curia le esigenze moralistiche e pie mortificano spesso la piú spontanea vivacità arcadica o la riprendono in forme ambigue), le poesie dello Zappi superano quella fase piú incerta e libresca, e in esse a una vitalità piú sicura e «moderna» corrisponde una tecnica piú precisa che usufruisce coerentemente delle esperienze precedenti e piú parziali, di sfumatura aggraziata e di correttezza espressiva, di linearità e di agilità briosa e che permette al piccolo scrittore di realizzare la costruzione di sonetti mossi e coloriti, dialogati e animati in piccole azioni melodrammatiche, personale sintesi delle esigenze arcadiche nel loro sviluppo piú centrale e intimamente proporzionato.

La correttezza e la elegante leggiadria, la «modesta» bellezza che non cerca lusso di immagini e che pure non si vuol ridurre a scialba regolarità senza brio e rilievo, la gentile tenerezza erotica e l’analisi accurata dei sentimenti amorosi, appresa alla scuola del Petrarca e adattata ad una gamma sentimentale tanto piú mondana e socievole, galante e patetica, si fondono organicamente in piccoli e saldi componimenti ben delineati e articolati, in cui vengono superati sia il fluire troppo facile di parolette scorrevoli e insulse dei sonettini di un Tommasi, sia quella certa attenzione quasi timorosa di errore che si avverte nei sonetti del Menzini, nella volontà di riaccordare su di un terreno sicuro parole letterarie ed elementi minuti di una piccola e aggraziata realtà.

L’animo idillico e melodrammatico vivo nello Zappi (e che pur è ben lontano dalla intensità poetica che esso avrà nel Metastasio, mentre gli elementi di figura e canto non raggiungono certo la sensibile perspicuitas di un Rolli) si esprime già (con le sue caratteristiche di dialogo patetico sapientemente calcolato nelle sue battute, nelle sue pause sospirose, nelle esclamazioni e interrogazioni che lo accelerano e lo sospendono) in certe ecloghe a due voci in cui lo Zappi collabora con altri arcadi in un esercizio assai significativo anche per un aspetto-limite dell’assurda fiducia arcadica in una poesia come prodotto socievole, come collaborazione letteraria di personalità vive nella stessa poetica. Si pensi all’ecloga del Ferragosto con il Crescimbeni o a quella con il Paolucci sul contrasto fra amore-gioia e amore-tormento:

Alessi (Paolucci): Ma tu dubbio ancor taci? Ah tu sospiri?

Tirsi (Zappi): Con voce di sospir parlan gli amanti.

Alessi: Sí, quei ch’han crudo amore ai lor desiri.

Tirsi: Sempre Amore ha di fero e crudo i vanti.

Alessi: Anzi fu sempre Amor diletto e gioia.

Tirsi: Ah, che cosí non dicono i miei pianti!

Ma ben meglio che in queste ecloghe, dove la lunghezza discorsiva diluisce l’offerta dei piccoli temi e le necessità della composizione «a due» dissolvono alla radice una possibilità piú che divertente (quando non è invece stucchevole e fastidiosa), le qualità dello Zappi, piccolo cantore di un mondo esiguo, ma vivo e ben posseduto, si rivelano appunto nei sonetti amorosi, nei quali, attraverso il velo ornamentale pastorale e mitologico, traspare un vivace senso di vita contemporanea, nella direzione di un patetismo goduto entro un essenziale piacere di vivere in una dimensione socievole, sicura, aperta ad uno sviluppo moderato, ma fiducioso, in condizioni civili piú animate e libere, illuminate da un nitido razionalismo, insaporite da una tenera luce di sogno.

Come avviene già nel notissimo sonetto XXIV[34], Sognai sul far de’ l’alba, in cui la trasfigurazione del poeta nel «cagnoletto» affettuosamente lascivo segna uno dei punti estremi dell’illeggiadrimento lezioso arcadico, ma in termini cosí coerenti e compiaciuti, sorridenti, in un dominio della dimensione galante cosí continuo, che il lettore adeguatamente orientato guarda soprattutto alla fattura sicura del sonetto, al procedere gradevole della scenetta miniaturistica, al suo dissolversi rapido e sorridente sullo sfondo sobriamente disegnato e melodico.

Sognai sul far de l’alba, e mi parea

ch’io fossi trasformato in cagnoletto.

Sognai che al collo un vago laccio avea,

e una striscia di neve in mezzo al petto.

Era in un praticello, ove sedea

Clori di ninfe in un bel coro eletto:

io d’ella, ella di me prendeam diletto;

dicea: corri, Lesbino: ed io correa.

Seguia: dove lasciasti, ove sen gio,

Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?

Io gía latrando e volea dir son io.

M’accolse in grembo, in duo piedi m’alzai,

inchinò il suo bel labbro al labbro mio.

Quando volea baciarmi, io mi svegliai.

E, su questa direzione (in cui lo Zappi, meglio degli altri arcadi, sa creare una scena, un movimento di affetti e di figure entro uno spazio miniaturistico, insaporito di idillici elementi di realtà), si rilegga il sonetto XXXV in cui la voce del poeta coerentemente si fa sommessa, affettuosa e suadente nel riferimento al mondo infantile del fanciullo cui si rivolge (sí che il gusto di diminutivi, la idilliaca riduzione della realtà in termini delicati e minuscoli han come una loro piú sicura giustificazione nella dimensione di colloquio particolare in cui si collocano) ed evoca, con una elegante facilità melodica, brevi e suggestive prospettive di sogno e di graziosa realtà: «le dolci fole della bella fata», il «bel verde augellino / cui lega un lungo filo il manco piede».

Vago, leggiadro, caro fanciullino,

la tua germana ov’è? piú non la vede

l’usato fonte e ’l bel colle vicino:

dimmi: ov’andò col gregge, e quando riede?

Se dir lo sai, vo’ darti un porporino

pomo maggior di quel che Albin ti diede;

dillo, e ti serbo un bel verde augellino,

cui lega un lungo filo il manco piede.

Tu taci? o ingrato pur quant’ella è ingrata!

Narrar non ti vo’ piú miste co’ baci

le dolci fole della bella fata.

Ma tu chiami la madre? (Oh miei fallaci

voti!) la madre, ch’è già meco irata!

Prenditi il pomo, semplicetto, e taci.

O si rilegga il sonetto XXXIV che piaceva al Foscolo, e si faccia attenzione alla misura con cui si svolge la sottile e acuta vicenda amorosa, insaporita da un acuto rilievo di psicologia infantile, dal contrasto fra la donna esperta e il fanciullo ignaro e dalla sottile emozione di quel ricordo di un bacio lontano di cui ora ritorna la nostalgia, fusa con il pieno rilievo del significato di quella lontana e irripetibile felicità. E si guardi al succedersi abilissimo delle voci calcolate nei loro passaggi a toni di canto piú aperto e sospiroso, in coincidenza con i momenti piú patetici (in cui le accentuazioni del dolore si svolgono in effetti di sottolineatura melodrammatica), e alla raffinata esecuzione dei particolari in cui vibra la sottile tensione tra sorridente e dolente.

In quell’età ch’io misurar solea

me col mio capro, e capro era maggiore,

amava io Clori, che insin da quell’ore

meraviglia e non donna a me parea.

Un dí le dissi: io t’amo: e ’l disse il core,

poiché tanto la lingua non sapea:

ed ella un bacio diemmi, e mi dicea:

pargoletto, ah non sai che cosa è amore!

Ella d’altri s’accese, altri di lei:

io poi giunsi a l’età ch’uom s’innamora,

l’età de gl’infelici affanni miei.

Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora:

non si ricorda del mio amor costei:

io mi ricordo di quel bacio ancora.

Ancor piú commisurato alla centrale tendenza di melodramma raccorciato e colto nel suo modulo essenziale e nel suo momento culminante, e piú adeguato a tradurre nel travestimento pastorale elementi del costume contemporaneo, è il sonetto XLII, sonetto davvero sintomatico, sul tema congeniale di un distacco doloroso e ritardato in una degustazione patetica della perplessità[35], per questa zona sentimentale e artistica in cui pure i sentimenti drammatici volti al patetico non si risolvono in commedia involontaria, come può avvenire piuttosto, a volte, quando la poetica arcadica ambisce al paragone rischioso dell’eroico. Anzi un simile componimento par bene indicare l’ideale dimensione della sentimentalità arcadica, disposta a risolversi in patetica melodia, suscettibile di rappresentazione efficace e intera se mantenuta nelle particolari direzioni di una vibrazione sincera e gentile, attentissima al suo valore letterario, ma mossa da tutta una disposizione di analisi e di fruizione dei sentimenti amorosi entro una vita socievole e attiva di rapporti, che nella direzione amorosa e galante trova il suo terreno di espressibilità piú sicura.

Il sonetto del commiato amoroso svolge questo sentimento melodrammatico in una tipica situazione di contrasto e di esitazione fra decisione razionale e riluttanza sentimentale (modulo sentimentale espressivo di una civiltà acutamente razionalistica e desiderosa di rendersi anche conto dell’intimo meccanismo dei sentimenti) e lo rende fantasticamente evidente in una vera piccola azione rivista nella memoria e cosí arricchita anche di un velo di nostalgia che intenerisce e agevola l’inclinazione melodica. Il patetico affanno dell’innamorato che rievoca quella scena delicata e mesta si traduce nella tensione e nel canto che si fondono con lo svolgersi dell’azione, senza sfumare in un vago alone sentimentale e canoro, sottolineando le fasi della vicenda in forme cosí nitide e proporzionate.

Sullo sfondo suggestivo di un cielo prima notturno e poi albeggiante, le figurine del cavaliere e della dama cantano la loro esile pena e la loro incertezza patetica fino alla conclusione in cui, sulla decisione «partii» e sul rilievo di espressioni forti, ma di chiaro effetto melodrammatico, vibra ancora, per risolversi in canto (e un canto quasi da elegantissimo stornello), la essenziale esitazione melodrammatica, che qui è intimamente giustificata da un intimo ondeggiamento patetico di tutto il sonetto (e lo scaturire del finale dalla linea centrale è ambitissima mèta della poetica arcadica) che il ricordo intenerisce e rivede con occhio affascinato ed attento. Al quale corrisponde tecnicamente l’occhio sicuro del piccolo artista capace di vedere e costruire una scena in movimento cosí chiara e articolata, animata e conclusa, di dominare la complicatezza dei piccoli movimenti che si succedono senza intralciarsi entro uno spazio cosí breve.

Tornami a mente quella trista e nera

notte, quando partii dal suol natio,

e lasciai Clori e pianger la vid’io,

non mai piú bella e non mai meno altera.

Oh quante volte: addio, dicemmo: addio,

e il piè senza partir restò dov’era!

Quante volte partimmo, e a la primiera

orma tornaro il piè di Clori e il mio!

Era già presso a discoprirne il sole,

quando le dissi al fin: ma che le dissi,

se il pianto confondeva le parole?

Partii, che cieca sorte, e destin cieco

voller cosí; ma come, ahi, mi partissi

dir non saprei: so che non son piú seco.

Questa capacità di precisione e di evidenza miniaturistica, esercitata con tanta efficacia nei particolari e nell’articolazione del sonetto, si verifica anche nella sua linea melodica, in cui vengono coerentemente ridotti, e commisurati alle proporzioni generali, l’espansione e il volume del canto, ormai assai diversi dalle forme di canto della poesia secentesca, la cui possibile eredità è comunque come mediata e trasformata in una specie di illimpidimento, cui collaborano la chiarezza razionalistica e la scuola del classicismo e del petrarchismo.

Qualità del canto che trova ancora piú aperta espressione in altri sonetti dello Zappi ancor piú affidati – pur sempre in un suo accordo con una linea di svolgimento di scena e di movimento di figure e sentimenti – al prevalere della melodia.

Come nel sonetto XII, Il gondolier, in cui una specie di poetica del piacere della poesia come canto si traduce efficacemente nella nitida espansione melodica assicurata ad un quadretto sobriamente ed edonisticamente pittoresco:

Il gondolier, sebben la notte imbruna,

remo non posa, e fende il mar spumante,

lieto cantando a un bel raggio di luna

«Intanto Erminia in fra l’ombrose piante»;

né perché roco ei siasi, o dolce ei cante,

biasmo n’acquista, o spera lode alcuna:

canta cosí, perché de’ carmi è amante,

non perché il sordo mar cangi fortuna.

Tal mi son io, che già per lungo errore

solco un vasto oceano, e veggio, o parmi

non lungi il porto, e canto inni d’amore.

Non canto no per glorioso farmi:

ma vo passando il mar, passando l’ore,

e invece degli altrui, canto i miei carmi.

In quest’ultimo sonetto il gusto del canto si manifesta cosí esplicito e prevalente da costituire quasi, in una dichiarazione di poetica del melodico, un appoggio interno di tutto lo sviluppo del canzonettismo che, accanto all’impegnativa costruzione melodrammatica del teatro metastasiano, verrà svolgendosi verso gli esempi piú maturi, verso il maggiore slancio melodico e ritmico delle canzonette del Crudeli, del Metastasio, del Frugoni, del Rolli, in cui fluisce una vita piú intensa e libera rispetto agli avvii di primo Settecento[36]. E in questa zona piú tarda nuovi elementi di cultura e di gusto affioreranno con un impegno di rappresentazione piú plastica e figurativa, con un nuovo uso del classicismo in funzione piú fortemente elegante ed edonistica che, specie nel Rolli, pare indicare anche l’intervento di una sensibilità poetica già alimentata da esigenze di incipiente sensismo e con avvii chiari verso la soluzione di classicismo sensistico ed edonistico tipica del Savioli.

Ma nella zona dei primi anni del secolo, entro cui va collocata l’esperienza del gruppo arcadico piú vicino alle esigenze di tipo crescimbeniano, val meglio, a chiusura di queste note, soffermarsi, fra i canzonettisti e madrigalisti che partono soprattutto dalla ripresa chiabreristica-canzonettistica del Menzini (e del suo diretto scolaro Francesco Del Teglia), su alcuni brevi componimenti di Niccolò Forteguerri, che possono confermare, nella direzione di un breve discorso facilmente melodico su esili e sorridenti temi di complimento galante, i caratteri fondamentali di questa zona arcadica, del suo gusto di vivere in una dimensione socievole e affabile, moderatamente edonistica (saggezza e piacere razionalnaturale[37]), entro facili riferimenti ad una natura miniaturisticamente ridotta e piacevolmente «abitabile». Meglio forse che nel Ricciardetto (frammentariamente gustoso nella sua bonaria comicità, nelle sue innocenti scurrilità, nelle sue novelline idillico-comiche, nelle sue «sentenze», nei quadretti di natura idillica, ma alla fine fastidioso e monotono nella lettura continua) assai gradevoli e significativi per il gusto e la mentalità arcadica possono risultare alcuni suoi madrigali e brevi complimenti raccolti anche nel volume II delle Rime degli Arcadi, da cui ne cito due.

Il primo[38] è un breve scherzo galante che si articola in un paragone fra un aspetto di minuta e goduta realtà naturale (il gusto arcadico di osservazione, di piccolo realismo illeggiadrito) e un piacevole moto di contemplazione amorosa:

Come vanno e come vengono

dall’albergo ove soggiornano,

nel piú caldo della state,

al cader delle spiche,

delle provvide formiche

le lunghissime brigate;

cosí volano

e rivolano

i pensier che mi consolano,

nel bel volto

e dal bel volto

di colei che il cor m’ha tolto.

Un breve discorso fragile e senza sforzo, reso piú familiare da una volontaria modestia di linguaggio, coerente al rallentamento di ritmo poco rilevato e incisivo, nella fantasticheria sorridente che gode della condizione allusiva del paragone-quadretto di facile miniatura poco brillante, e del suo agevole e breve disegno ritmico.

Mentre nel secondo[39] il paragone e l’esile tema amoroso svolgono le loro placide e minute immagini di una realtà gustosa e lieta, la loro allusione a una interpretazione modesta e affabile di un ritmo vitale idillico, in un discorso poetico facile e senza pretese nel suo ordinato fluire, con le solite vibrazioni di interrogativi, di pause, di esclamativi sospirosi e sorridenti:

I pesci di vivagno,

o di lago o di stagno,

invidio: ed oh! mai quanto!

Ma pietade altrettanto

ho dei pesci di mare,

dei pesci di fiumare.

Sapresti tu arguire,

Filli, ciò che vuo’ dire?

Or ve’ se io dico il vero.

Non punge già pensiero

di partir dal compagno

pesce di lago o stagno,

ma da mattina a sera

il pesce di riviera

e quel del mar profondo,

gira e rigira il mondo.

Se potessi far io

in tutto a modo mio,

sai tu che vorrei fare?

Vorrei il mondo scorciare,

e farne poca cosa,

ma però graziosa:

un campo, una villetta,

e quivi, o mia diletta,

viver teco e morire,

ma non poter partire.

Dove nel finale (espressione di un desiderio di idillio senza fine, di calda intimità entro dimensioni piccole e «abitabili», di fantasticheria lucida e senza rischi) si può cogliere un tipico tema arcadico[40] veramente sintomatico per un gusto e per una mentalità che tendono piú schiettamente non al grandioso e al drammatico, ma al miniaturistico e all’idillico, al patetico melodrammatico: i toni e i moduli artistici in cui piú saldamente spiccano gli esempi del sonettismo della Maratti e dello Zappi e che saran sollevati a piú intensa, ma non contrastante interpretazione dallo slancio patetico e melodico del vero poeta dell’epoca arcadica, il Metastasio. Il quale per la sua piú vera forza sentimentale ed espressiva potrà poi – diversamente da questi minori rappresentanti arcadici – parlare ancora poeticamente ad uomini del rinnovamento preromantico, come Baretti o Rousseau, vivi in un tempo ormai cosí effettivamente nuovo rispetto alle condizioni generali dell’epoca arcadica. Un’epoca, questa, che va individuata, nei suoi forti limiti, nelle sue aspirazioni piú velleitarie, nei suoi fermenti piú vivi, e nei suoi elementi piú congeniali e piú realizzabili artisticamente, come un momento ben preciso nello sviluppo del Settecento, ben rilevandone gli aspetti di educazione stilistica e sentimentale, di preparazione nei confronti dei momenti successivi, ma anche senza accettare né una risoluzione di tutto il secolo nelle condizioni di gusto dell’Arcadia, né una troppo facile continuità fra questa e le altre zone settecentesche, che ridurrebbe pericolosamente la fondamentale novità e l’originalità di cultura, di poetica, di poesia dell’epoca illuministica e di quella preromantica e neoclassica.


1 Si veda in proposito il mio volume Classicismo e neoclassicismo. Si vedano anche sul classicismo del Gravina e del Conti i capitoli relativi in F. Ulivi, Settecento neoclassico, Pisa, 1957, e le mie schede in «La Rassegna della letteratura italiana», 1956, pp. 203, 380, in occasione della pubblicazione in rivista di detti capitoli.

2 Le tragedie del Gravina (a parte il loro significato programmatico di lotta contro il melodramma e contro la «spettacolarità» teatrale, che le allinea alle esigenze piú generali della riforma arcadica del teatro, tutt’altro che inoperanti nella stessa attività teatrale metastasiana) sono assai interessanti per la loro tematica storico-politica, per il loro impegno in un teatro in funzione di una nuova cultura antigesuitica e razionalistica, di cui il Gravina è certo consapevole rappresentante. Ma l’attuazione poetica di tali interessi è del tutto deludente e se gli attacchi e le satire dei contemporanei son mossi anche da dissensi ideologici precisi o da incomprensioni, che comunque verificano l’isolamento graviniano specie nell’ambiente romano in cui pure egli voleva operare, le ragioni di gusto che pur le motivano non sono certo fittizie e si collegano positivamente alle esigenze di cura stilistica e di linguaggio poetico che divenivano sempre piú centrali in Arcadia. Sí che tale reazione viene a inserirsi in quello sviluppo di gusto che motiva anche l’interessante accusa della coscienza arcadica matura al Maggi «prosaico e invenusto», come lo chiamò il Maffei nella sua importante lettera al conte Garzadoro e nella implicita polemica con il Muratori.

3 Sono soprattutto le posizioni della prearcadia settentrionale (in parte del Filicaia), piú ambiguamente risolte nell’incontro melodia-contenuto religioso del De Lemene, piú accetto comunque all’Arcadia matura per la sua cura stilistica e il suo gusto di canto. Per i contatti fra questa zona e certi aspetti del tardobarocco a sfondo morale, eroico, religioso, si veda il saggio di F. Ulivi, Prima dell’Arcadia, in «Paragone», 1952. Ma il problema del tardobarocco settentrionale è da meglio studiare. Si vedano intanto gli spunti importanti di F. Croce nella sua recensione ai Lirici marinisti del Getto e all’antologia marinistica del Ferrero (in «Rassegna della letteratura italiana», 1955, p. 76 ss.) e nel suo volume Carlo de’ Dottori, Firenze 1957.

4 Sul valore della convenzione pastorale il Leonio ha molte pagine che si incontrano con l’Accademia Tuscolana del Menzini nella interpretazione di una nuova Arcadia civile e dotta, in cui l’elemento pastorale fosse soprattutto incentivo di «naturalezza», di semplicità, di saggezza e di un idillio usufruito da una società concorde ed armonica. Si vedano del Leonio gli scritti raccolti nel vol. I delle Prose degli Arcadi, Roma 1718 (Dei greggi e degli armenti dei moderni pastori arcadi; Difesa di alcune costumanze della moderna Arcadia). E si veda, come giustificazione del sogno pastorale degli Arcadi nella distinzione di un’Arcadia letteratissima, razionalnaturale, morale ed educata, dalla vita pastorale reale, disadorna e rozza, impoetica, il bel passo del Martello nei Sermoni dell’arte poetica, cosí utile ad intendere anche il particolare realismo «illeggiadrito», il limite di apertura degli Arcadi ad una realtà, scelta nei suoi elementi «poetici» e piacevoli, conforto di vita di una società colta e raffinata. La convenzione pastorale, nelle intenzioni del Leonio, doveva anche essere un modo di unificazione, non solo accademica, del concorde lavoro degli Arcadi, una base comune di tematica e di linguaggio.

5 L’insistenza del Crescimbeni e del Leonio sulla esemplarità del «leggiadrissimo» Di Costanzo è soprattutto da intendere nel bisogno di questi pratici promotori della «riforma del buon gusto» di presentare precisi modelli a sostegno di esigenze (qui soprattutto un tipo di petrarchismo di forme piú rilevate e mosse specie nel finale del sonetto) che poi piú liberamente si realizzano nel piú sicuro movimento di grazia e di brio patetico di scrittori come lo Zappi e la Maratti, rendendo in qualche modo superfluo il preciso riferimento ad un preciso ed unico modello (o, come diceva il Crescimbeni, «direttore di gusto»). Certi schemi e precisi elementi tecnici e retorici, piú risolutamente affermati nella fase piú programmatica del gruppo costitutivo dell’Arcadia romana, cadono poi come puntelli non piú necessari quando il gusto arcadico raggiunse piú concretamente l’incontro di regolarità, purezza stilistica e animazione, in una propria sicurezza di tematica e di stile, al di là delle indicazioni pedagogiche e degli esempi precettistici.

6 Il piccolo classicismo miniaturistico arcadico si appoggia anche ad un esercizio di traduzioni (già in atto in zona toscana di fine Seicento) volte soprattutto ad italianizzare Anacreonte (si veda la raccolta Anacreonte tradotto in versi italiani da vari, Venezia 1763). Per osservazioni sulle caratteristiche delle traduzioni arcadiche, in rapporto a quelle del periodo neoclassico, rimando al capitolo su G.M. Pagnini, traduttore neoclassico, nel volume Classicismo e neoclassicismo cit.

7 L’attacco del Gravina contro la rima è un altro dei punti di maggior dissenso fra il suo severo classicismo non privo di pedanteria archeologica, che considerava la rima una invenzione di tempi barbari («sozza invenzione» chiamata a supplire grossolanamente alla distinzione «dilicata e gentile del verso dalla prosa per mezzo de’ piedi»), e il gusto prevalente in Arcadia che tanta importanza dava all’elemento melodico (pur rifiutando un gusto di canto scompagnato dall’armonia interna dello svolgimento tematico e sentimentale) e che nella rima vedeva uno degli elementi essenziali della tradizione poetica petrarchesca. Per una briosa e sensibile difesa della rima (e insieme per la satira della polemica sulla rima e il verso sciolto) si rilegga La rima vendicata del Martello, in Opere, Bologna 1729, V.

8 Sull’assurdità di ricorrere al procedimento mitico, necessario ai poeti primitivi greci, ma non ai moderni «che di tal metodo non hanno affatto bisogno potendo razionalmente spiegare agli altri uomini le piú difficili verità», si veda il dialogo IV della Bellezza della volgar poesia, dedicato ai rapporti fra la moderna poesia italiana e la poesia greca.

9 Lo scarto della esemplarità del Maggi dopo le lodi entusiastiche del Muratori (Vita del Maggi, Milano 1700), ma poi piú limitate nel Della perfetta poesia italiana, del 1706, è momento estremamente significativo nello sviluppo del gusto arcadico, e in tal senso ha grande importanza la nota lettera del Maffei al conte Garzadoro (su cui importanti considerazioni fece il Fubini nel saggio Le osservazioni del Muratori al Petrarca in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954), che precisa il rifiuto degli Arcadi, anche non direttamente crescimbeniani, di una poesia che a loro appariva «prosaica e invenusta», considerabile nella rottura del barocco, ma non nel raggio delle loro esigenze positive e mature. Per la forte insistenza arcadica sul linguaggio poetico nettamente distinto da quello della prosa (e pregio della letteratura italiana di fronte a quella francese) si veda la lettera del Manfredi all’Orsi raccolta nell’opera di questo Considerazioni sopra la maniera di ben pensare, Modena 1735.

10 Per non dir poi della abilità diplomatica che calcolava persino il caso estremo del Guidi come tipo di una poesia «tutta d’immagine», pur svalutando come esempio pericolosissimo e insinuando una certa sua vicinanza a modi barocchi (vuole «strasecolare» e «non ammetterebbe una sillaba che facesse il verso men rumoroso d’una bombarda»!).

11 Il sonetto, già tanto considerato dal Menzini per le possibilità offerte ai poeti di mettere in luce le loro qualità di precisione, di cura dei particolari, di articolazione perfetta ed organica del tema, è anche al centro dell’attenzione del Crescimbeni, nel dialogo IX della Bellezza della volgar poesia, il dialogo piú interessante per lo studio della poetica arcadica crescimbeniana.

12 E del resto anche nel caso del Manfredi (per il quale rimando al precedente capitolo) si assiste ad una singolare ripresa dell’esempio petrarchesco mediante un nuovo tono di gentilezza e finezza sensibile e spirituale che, pur distinguendosi per maggiore fervore interiore, non è totalmente discordante dai toni piú apertamente piacevoli e patetici di altri arcadi, cosí come nella tecnica sottile e delicata del Manfredi pur si verificano le esigenze stilistiche arcadiche dell’articolazione, del rilievo finale, del gusto di dialogo e di scena quali possono indicarsi ad es. nel notevolissimo sonetto Vergini che pensose.

13 Ne è pieno soprattutto il III volume delle Rime degli Arcadi, Roma 1716.

14 Il tema delle rovine compare qua e là nelle Rime degli Arcadi (v. rime del Bonini e dell’Astalli, nel vol. V, p. 13 e p. 38 e, con piú continuità, nelle rime del Petrocchi, IV, p. 9 ss.).

15 Per queste rugiadose allegorie pastorali-religiose si veda ad es. il canzoniere del Bini (Rime degli Arcadi, IV, p. 315 ss.) in cui Filli diviene simbolo dell’amor di Dio e «i sentimenti teologici si cuoprono sotto favole e argomenti pastorali».

16 Tipici i sonettini di Antonio Tommasi (v. Rime degli Arcadi, VI, pp. 336-342) o le canzonette «minime» del Ciappetti (v. Rime degli Arcadi, III, p. 56). Esempi di sonettini si trovano anche nelle rime del Somai, del Tartarini, del Pegolotti, del Crocchiante (v. Rime degli Arcadi, I, p. 199; II, pp. 215-216; III, p. 236; IV, pp. 354-355).

17 Rime degli Arcadi, II, pp. 127-129.

18 B. Croce, Fidalma Partenide, in Letteratura italiana del Settecento, Bari 1949.

19 In Rime degli Arcadi, I, pp. 171-178.

20 Il finale della Ifigenia tende addirittura ad una elegante comicità. Per la posizione arcadica del Martello, per la sua commozione sincera, ma svolta in forme di gentilezza, di leggiadria, di patetismo, di aggraziato realismo miniaturistico anche nel canzoniere per la morte del figlioletto Osmino, rimando alle giuste osservazioni di F. Croce nella sua nota martelliana, «La Rassegna della letteratura italiana», 1953, p. 137 ss.

21 «O di perigli piene, / o di cure e d’affanni ingombre e cinte / case dei re! Mio pastoral ricetto, / mio paterno tugurio, e dove sei? / Che viver dolce in solitaria parte, / godendo in pace il puro aperto cielo, / e della terra le natie ricchezze! / Che dolci sonni al sussurrar del vento, / e qual piacer sorger col giorno e tutte / con lieta caccia affaticar le selve, / poi ritornando nel partir del sole, / ai genitor che ti si fanno incontra / mostrar la preda e raccontare i casi / e descrivere i colpi! Ivi non sdegno, / non timor, non invidia; ivi non giunge / d’affannosi pensier tormento o brama / di dominio e d’onor. Folle consiglio / fu ben il mio, ché tanto bene lascia / per gir vagando. O pastoral ricetto, / o paterno tugurio, e dove sei? / Ma in questo acerbo dí fu tanta e tale / la fatica del piè, del cor l’affanno, / che da stanchezza estrema ormai son vinto. / Ben opportuni son, se ben di marmo, / questi sedili. O quanto or caro il mio / letticiuol mi saria! Che lungo sonno / vi prenderei! Quanto è soave il sonno!».

22 «Ismene: Chi rammenta Cresfonte e chi descrive / il giovinetto; altri domanda ed altri / narra la cosa in cento modi. I “viva” / fendono l’aria; infine i fanciulletti batton le man per allegrezza».

23 L. Morandi, Lucrezia romana in Arcadia, in «Nuova Antologia», 16 febbraio 1888.

24 B. Maier, Faustina Maratti Zappi, donna e rimatrice di Arcadia, Roma 1954.

25 Per la Stampa e per questa sua intonazione rimando al mio saggio raccolto in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, 2a ed., Firenze 1963, p. 3 ss.

26 Il richiamo ben evidenziato di questo verso petrarchesco è comune a molti rimatori arcadici e qui ha il valore di una conclusione capovolta rispetto a quella del sonetto del Canzoniere, vale come assicurazione, su quell’eco, di una nuova vicenda sentimentale e poetica di esito positivo e piacevole. Cito questo e i sonetti seguenti dalla raccolta Rime di G.B. Felice Zappi e di Faustina Maratti, Venezia, 1790, rispettivamente alle pp. 118, 113, 125, 126.

27 Si ricordino le preoccupazioni del Redi circa il finale del sonetto non concettistico e pure non «lonzo», non melenso e fiacco.

28 G.M. Crescimbeni, L’Arcadia, Roma 1711, p. 16.

29 In Opere, ed. naz., VIII, pp. 142-143.

30 Zibaldone, ed. Flora, Milano 1937, I, p. 42: «Io solea dir ch’era una follia il credere e scrivere che ci fosse in Italia o altrove qualche poeta che somigliasse ad Anacreonte. Ma leggendo il Zappi, trovo in lui veramente i sensi di un Anacreonte e al tutto anacreontica l’invenzione ed in parte anche lo stile dei sonetti 24, 34, 41»; e parla ancora di «bella novità», di «dignitoso garbo», di «composta vivacità», di «certa leggadria propria».

31 Sonetti dello Zappi, in La letteratura italiana del Settecento, già citato. Si vedano anche le pagine di A. Salza nel volume incompiuto La Lirica, Milano, s.d. Si veda ora per lo Zappi e la Maratti l’introduzione di M. Fubini ai Lirici del Settecento, a cura di M. Fubini e B. Maier, Milano-Napoli 1959.

32 Il gusto arcadico di una poesia bonne à tout dire si associa ad un aspetto dell’ambiente soprattutto romano, curiale e forense (e lo Zappi era anche «l’avvocato Zappi», come viene spesso qualificato nelle raccolte di rime), al piacere, oltreché della conversazione brillante, della capacità di perorazione avvocatesca. Cosí fu molto ammirato lo Zappi per i due sonetti su Lucrezia: in uno si «biasima il fatto di Lucrezia», nell’altro «si scusa».

33 In Vite degli Arcadi illustri, Roma 1727, IV, p. 165. Si ricordi che, accanto alla sua partecipazione alle riunioni dell’Arcadia, e a quelle dell’Accademia di disegno (fondata nel 1702 e promotrice di esercitazioni poetiche su temi «artistici» e sui rapporti poesia-arti figurative che a lor modo collaborano a un essenziale canone della poetica classicistica e neoclassica, qui nelle forme piú generiche di ripresa di un tema di occasione), lo Zappi manteneva una sua «privata conversazione» che divenne famosa come succursale piú piacevole, e meno prelatizia e curiale, dell’Arcadia romana.

34 Cito secondo la numerazione dell’edizione prima ricordata per la Maratti.

35 Con ben altra forza sentimentale e poetica il Metastasio troverà proprio nei «commiati» di innamorati i momenti piú intensi della sua poesia melodrammatica.

36 Naturalmente, in questa evoluzione del gusto verso il vero e proprio rococò, la volontà di totale distacco dal Seicento è limitabile nell’osservazione di elementi piú propriamente «arcadico-barocchetti», che non mancano anche in certa produzione dello Zappi, meno matura e piú vicina a esempi di gusto chiabreresco. Come si può vedere in alcuni sonetti come O violetta; O luccioletta.

37 Saggezza razionalistica arcadica che, nel suo gusto un po’ ghiotto ed edonistico di pace, di tranquillità, di intimità pacata, di facile dominio di ogni moto sentimentale turbatore, si verifica assai bene in una canzonetta di questo interessante rappresentante – fra lavoro erudito e attività letteraria – della cultura media di Arcadia. È il componimento nel vol. II delle Rime degli Arcadi, a pp. 321-322, che volge in chiare condizioni arcadiche di moralità saggia, ragionevole e idillica la complessità dolorosa di un grande tema petrarchesco: «O cameretta mia, / o dolce mio conforto, / tu mi sei fedel porto / in gran procella e ria: / O cameretta cara, / quanto ti devo, oh quanto! / In te le Muse a gara / mi onoran del lor canto. / Ave in te sua magione / ogni virtú piú bella: / in te santa ragione / risplende come stella. / ... Oh sarei piú beato, / cameretta gradita, / se in te stessi serrato / il piú della mia vita...».

38 Rime degli Arcadi, II, Roma 1716, p. 326.

39 Rime degli Arcadi, IV, pp. 322-323.

40 E si ricordi per una versione ironico-parodistica di simili temi arcadici – essa stessa poi cosí schiettamente arcadica nella sua grazia letteraria e nel suo gusto di sorriso e di miniatura – il madrigaletto di Uy nello Starnuto di Ercole del Martello (su cui v. il capitolo Le commedie per letterati di Pier Jacopo Martello): «Nel gran niliaco mare / vorrei tanta isoletta, / che ad accor sol bastasse / me con la mia diletta».